Riflessioni sul confine con Marco Ambrosino
In questa newsletter Deborah D'Addetta intervista Marco Ambrosino, chef di Sustanza. Come sempre, alla fine, la lista di Poster.
Intervista di Deborah D’Addetta
Fotografie di Claudio Morelli
Su Marco Ambrosino, chef di Sustanza – il ristorante all’ultimo piano di Scotto Jonno in Galleria Principe – è stato detto quasi tutto: nasce a Procida, si appassiona alla cucina per caso, poi trascorre dieci anni a Milano, qualche mese in stage al Noma di Copenaghen, infine ritorna a Napoli e gli viene affidata la sfida di far rifiorire un luogo della città ancora poco valorizzato. A me però interessa quello che non è stato ancora detto, perciò, in una bella chiacchierata con Marco, parliamo di cucina, ma anche di letteratura, antropologia e cinema, con una stoccata finale che scomoda i massimi sistemi e Yorgos Lanthimos.
Ciao Marco. Ci siamo salutati mettendo subito sul piatto una tematica a entrambi molto cara: le isole e la fascinazione che esercitano. Tu sei nato a Procida: quanto l’essere isolano ha influenzato la tua forma mentis e la tua filosofia in cucina?
Volente o nolente, quando si nasce su un’isola piccola come Procida, è inevitabile essere circondati dal mare, dunque se è vero è che ho un’attenzione particolare al mondo marino, ciò su cui mi sono concentrato maggiormente sono i margini e i confini per una questione di necessità, ovvero capire cosa c’era oltre. Mi sono chiesto: cos’è un confine? Come si traduce a parole? In ecologia esiste un termine – ecotono – che spiega benissimo il concetto: un ecotono è un ambiente di transizione tra due ecosistemi, ad esempio, foresta e prateria, vegetazione palustre ai bordi di un fiume o di un lago (dunque vegetazione e acqua), battigia e mare. Il punto di contatto tra questi due ecosistemi è un luogo estremamente fragile, ma anche estremamente vivo (pensiamo anche ai recinti degli animali da allevamento o ai marciapiedi delle città, tra strada e palazzi, dove spesso cresce vegetazione spontanea e rigogliosa). Vien da sé che l’isola è un ecotono all’ennesima potenza: l’isola è il margine per eccellenza tra terra e mare, e se ci pensi, parlando di Procida in particolare, il rapporto col mare è ancora più stretto, perché a differenza di Ischia o Capri, Procida non ha un vero e proprio entroterra. Per questo motivo ho usato il termine inevitabile per parlare del mare sulla mia isola, e quindi dei suoi margini. Questa curiosità la reputo figlia della mia origine insulare, curiosità che poi ha allargato, per l’appunto, i suoi confini ed è sfociata in un interesse – anzi, un’ossessione – per un altro luogo dei margini per eccellenza: il Mediterraneo.
Come si gestisce la ricchezza di un luogo come il Mediterraneo – un mare chiuso, circondato da terre molto diverse tra loro e potenzialmente fornito di ogni ben di Dio – in termini di prodotti e stimoli per uno chef?
Questa sua ricchezza è stato il più grande limite della cucina mediterranea. C’è una bellissima illustrazione di un libro illustrato di Marino Amodio e Vincenzo Del Vecchio, dal titolo Terraneo, che rappresenta il Mediterraneo e le terre che lo circondano al contrario: il mare come un’isola emersa e i paesi intorno come mare. Una sorta di negativo. Il concetto si inverte: non sono più le terre che prendono dal centro, ma è il centro che assorbe ciò che ha intorno. Cos’è, di fatto, il Mediterraneo? Un bacino, un porto, che ha due sbocchi minuscoli – altri due margini – e che, per genetica, mette in relazione dei tratti diversi tra loro. In cucina questo si traduce in una pratica tutto sommato recente (e qui mi prendo una piccola parte di merito), ovvero mettere a tavola prodotti che sono arabi, armeni, turchi, e che rappresentano l’origine di ricette e prodotti che noi, erroneamente, crediamo “nostri”: ad esempio, da Sustanza stiamo per mettere in menù una salsa a base di uova, pomodoro e pepe di origine turca di nome menemen. Quando ho spiegato il procedimento ai miei ragazzi, ci siamo resi conto che altro non era che la ricetta delle uova alla zuppetella napoletana. Altri esempi: l’agnello con le uova, una ricetta della parte bassa del Mediterraneo, ma che troviamo anche in Abruzzo o nelle Marche; la musciska, una carne essiccata in strisce tipica della zona del Gargano (il nome è, chiaramente, di derivazione araba); le polpette: i ćevapčići croati, le kofte in Grecia, il kebab turco, le nostre polpette al sugo, le pallotte cacio e ova. La cosa importante non è tanto l’ingrediente ma il gesto: metto insieme qualcosa che ha poco valore se lo penso separatamente e lo faccio diventare un piatto vero.
La cucina è un modo subdolo per farti arrivare un messaggio diverso, di trovare un valore laddove si crede non ci sia: il Mediterraneo, dal dopoguerra in poi, è diventato un luogo fragilissimo, per le persone e per il mare stesso. Pensiamo all’Italia: noi vendiamo circa diciassette specie di pesci quando il Mediterraneo ne offre più di trecento commestibili, per non parlare dei vegetali marini. Quando si dice “non c’è più per pesce per tutti” non è vero: non c’è più lo stesso pesce per tutti. Andiamo sui banchi dei pescivendoli e troviamo sempre le stesse cose: trovo che questa pratica sia terribilmente didascalica e frustrante e non restituisce una lettura veritiera del reale.
Nel tuo caso, proprio perché il tuo approccio alla cucina è di tipo accademico, come fossi un ricercatore, la tua scelta di inserire in menù prodotti poco conosciuti ti mette in condizioni di dover spiegare la tua cucina? La rende più di nicchia?
Io non credo che la cucina debba essere spiegata. Tutto dipende dai clienti: come capita in ristoranti come il nostro, c’è una fetta di clienti che viene perché è interessata a questo tipo di cucina e un’altra che vuole solo mangiare. Bisogna sempre ricordare che il ristorante non è un museo, ma appunto un ristorante, un luogo dove si mangia. Io ho una mia idea della differenza tra arte e cucina: se nell’arte i sentimenti forti e spesso negativi, come la depressione, il mal d’amore, la delusione, la mancanza di denaro, hanno generato tre quarti della produzione mondiale d’arte, di qualsiasi tipo – pittura, musica, letteratura – nella cucina questo approccio non lo condivido. Se l’intento è andare in un ristorante per cercare altro al di fuori dell’esperienza gastronomica, è sbagliato l’approccio a monte. Chiaro è che io parlo molto con clienti, con i quali so che posso farlo, di questioni che esulano la cucina – anche il mio approccio ai social, ad esempio, le cose che scrivo o i disegni che condivido, sono la mia parte sentimentale – ma resta il fatto che noi siamo ristoratori e facciamo ristorazione: se arrivano trenta persone nel mio locale, io in due ore devo farle mangiare. In questo non c’è nulla di artistico: c’è una tecnica che devi applicare e devi fare in modo che tutti siano felici, ognuno a modo suo.
Forse l’arte passa attraverso il fatto che il cliente si illude che l’esperienza puramente culinaria sia anche romantica, ed è qui che sta il “genio” dello chef e della sua cucina.
L’esperienza è esclusivamente del cliente. Il cliente si chiama appunto cliente, non visitatore di un museo, non amico. Proprio per questo motivo, io cerco fonti alternative per ispirarmi: libri di antropologia e di storia, esperienze di viaggio, narrativa, saggi. Ad esempio, quando ero a Milano a 28 posti facemmo un intero menù dedicato al tabacco, perché mi ero imbattuto per caso nella storia delle tabacchine di Tricase, delle donne che lavoravano in una fabbrica di tabacco, attività esclusivamente femminile. Mi informai e il risultato fu un menù che prese spunto da una storia dolorosa, di rivendicazione sociale, probabilmente la prima rivolta operaia della storia del nostro Paese. La cucina è il mio pretesto per raccontare.
Qual è la più grande fortuna di uno chef? La mente o la mano? La sua intelligenza e curiosità o la capacità di esecuzione e applicazione?
Istintivamente ti direi la mente, perché la pura esecuzione mi annoia. Detto ciò, se uno chef ha entrambe è la soluzione ideale. Tuttavia, come in tutti gli ambiti, creativi e non, più ci metti mente più soffri, perché non ti dai pace.
Oggi c’è questa tendenza in cui si ha l’impressione di poter dire ciò che si vuole, ma nella realtà qualsiasi cosa si dice è un rischio: come la fai la sbagli. Se applichiamo questo paradigma alla cucina, cosa diresti di politicamente scorretto?
Potenzialmente la cucina è un mondo bellissimo, ma anche di una noia mortale. Inoltre, si ha la tendenza a seguire le mode, ciò che fanno gli altri, perché in questo modo non si viene esclusi. E questa è una cosa che, in gioventù, ho pagato moltissimo. Oggi che sono un po’ più maturo, mi rendo conto che l’aggregazione in quei circuiti chiusi non è necessaria, o meglio, non è inevitabile, anche se bisogna ammettere che vivere in un circuito chiuso permette la sopravvivenza. Ciò che forse più mi preme dire è che abbiamo un grande problema con l’editoria e la stampa gastronomica: esistono dei professionisti eccelsi, ma anche tutta una serie di persone collaterali che fanno questo mestiere senza averne le capacità tecniche o l’interesse adatto. La superficialità con cui si parla di cucina oggi restituisce un racconto di questi anni, nell’ambito della gastronomia, che non è reale, approfondito, ma superficiale. Faccio un esempio: quando tornarono di moda le braci in cucina, passava la narrazione che si fosse tornati a una cucina primordiale, come se i nostri antenati avessero il denaro e il tempo di cucinare in quel modo. È una bugia: in una famiglia in cui si lavorava nei campi tutto il giorno l’unica soluzione sostenibile era mettere sul fuoco un pentolone d’acqua e buttarci dentro quello che dava la terra, un osso, verdure varie, e da quel pentolone riuscire a cavarci almeno due o tre pasti. Si dice, letteralmente parlando, che noi siamo figli dell’acqua bollita, non della brace. Invece si è raccontato per anni che i nostri nonni cucinavano sulla brace: e se quei pochi prodotti a disposizione si bruciavano? E poi, cosa veniva messo sulla brace? La carne era un lusso. Vogliamo far credere che si mettesse ad arrostire la patata? La rapa? Le carote? I legumi? Forse non esiste più una vera critica gastronomica, fatta eccezione per alcuni professionisti del settore, e questo è un problema che abbraccia qualsiasi ambito, non solo la gastronomia.
Forse il problema non è tanto l’offerta allora ma la qualità della domanda che è incolta? Parliamo ad esempio della genovese. Oggi tutti vogliono mangiare la genovese, ma nella realtà, chi è che la cucina con cognizione di causa? In questo senso, i clienti vanno educati?
Ti racconto un aneddoto: mia moglie è di Ischia e a Ischia esiste una ricetta, il coniglio all’ischitana. Il lato orientale dell’isola prevede la ricetta del coniglio con molte erbe aromatiche perché il coniglio di Fossa cresceva mangiando le erbe aromatiche. Secondo questa visione, aggiungere le erbe alla ricetta avrebbe sottolineato ed esaltato l’abitudine del coniglio. Il lato occidentale dell’isola prevede una ricetta senza erbe, perché sembra superfluo aggiungere un elemento che già di natura è all’interno della carne. Chi ha ragione qui? Nessuno ed entrambi. In cucina non esistono verità assolute. Nel caso della genovese: oggi la quantità di carne è pari a quella delle cipolle. Ma duecento anni fa chi si poteva permettere di far cuocere la carne, quando pure si aveva a disposizione – nella maggior parte dei casi solo in occasioni sporadiche – per una giornata intera su un fuoco? E soprattutto, chi poteva permettersi la carne, la riempiva di cipolle? La genovese, con buone probabilità, altro non era che un brodo di ossa di carne e cipolle. E non gli si abbinava neanche la pasta, perché quando è nata la genovese in Campania neanche si mangiava la pasta, si mangiava il riso. Probabilmente la vecchia ricetta prevedeva un riso in brodo di ossa e cipolle. Poi, finita la guerra, le persone diventarono economicamente più stabili, c’era un po’ di benessere in più, e la ricetta si è adeguata. Oggi la genovese è più carne che cipolle e pasta. Il punto è che non è sbagliata la genovese con tanta carne, ma la narrazione della sua storia che, ovviamente, influisce sul presente e su ciò che crediamo autentico.
E se applichiamo questa stessa questione al modo in cui viene raccontata oggi Napoli e la sua cucina?
Il racconto sulla città, oggi, come dicevo prima anche per la genovese, non è completo. È superficiale. Chiaramente la verità assoluta non esiste, ma si potrebbe essere più onesti. L’utilizzo delle parole è importante, il modo in cui si dicono e si definiscono le cose. C’è una parte della città che sa che deve fare un’unica cosa: vendere un format e, devo dire, ci sta riuscendo benissimo. Tutto il mondo che passa per la moda, l’editoria e la comunicazione ha intercettato un immaginario ben preciso per raccontare la città che funziona e vende e però costruisce un racconto della città parziale e forse non vero. Ad esempio, se dovessi nominare qualcuno in grado di fare un documentario reale sulla città sarei in difficoltà, anche perché non basterebbe una sola persona. Serve un lavoro di comunità, non di collettivo o di giornalismo in termini esclusivi. Parlo di persone che fanno comunità nel senso antropologico del termine. Credo sia una questione di estrema urgenza: come persone, siamo tutti lontanissimi. L’impressione è che, grazie alle tecnologie, siamo vicini e facciamo gruppo, ma nella realtà non è così. Bisogna tornare a ragionare insieme, a parlare con coscienza.
So che tu sei un forte lettore, spesso parliamo insieme di letteratura: ti chiedo quale personaggio letterario vorresti a cena e cosa gli cucineresti?
Per una mia passione per il personaggio, ti direi Camilleri. Ho letto praticamente tutto quello che scritto e lo rileggo spesso. Al netto della semplicità dei suoi racconti, riusciva sempre a metterci uno spessore di pensiero, dall’analisi dei luoghi, all’erotismo, alla geografia. Sarebbe molto interessante fargli un piatto da “conversazione”: un piatto di pasta tutto in tegame, una parte di pasta, tre d’acqua, pomodori, buccia di limone, finocchio di mare, basilico, olio a fine cottura.
Fun fact, perché so che i tuoi follower sono agguerriti sul tema, ma ho cucinato molto spesso per Baricco.
Se hai mai visto The Lobster di Yorgos Lanthimos darai credito a questa mia domanda: secondo te, le aragoste hanno un’anima?
Ti racconto un altro aneddoto: mi capitò una volta che un gruppo di astici che avevo messo in frigo, non so come e perché, riuscirono a fuggire. Mi ritrovai nel corridoio faccia a faccia con questi animaletti incazzatissimi che mi venivano incontro tutti insieme. È stata una delle esperienze più terrificanti e divertenti di sempre.
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Deborah D’Addetta, è nata in Puglia nel 1986, vive a Napoli. Fa parte del collettivo Spaghetti Writers, per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per Critica Letteraria ed è contributor di varie testate, tra cui Italy Segreta, Mar dei Sargassi, City News – Napoli Today. Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Esordisce a maggio 2024 con il romanzo “Maleuforia”, edito da Giulio Perrone Editore.
La lista di Poster
In breve. Cosa è successo, sta succedendo o succederà in città. Se hai delle segnalazioni, sei un ufficio stampa o un nostro lettore scrivi a info@reversocollettivo.com
Dal 6 dicembre all’8 dicembre 2024 ci sarà il Santa Feira Festival, fiera dell’illustrazione e dell’editoria indipendente, presso l’ex Asilo Filangieri.
Dal 1 dicembre all’8 dicembre, ad Avellino ritorna il Laceno d’oro, giunto alla sua 49esima edizione: 80 proiezioni per un cinema che riflette, e poi ancora masterclass, incontri con le scuole, mostre, scoperte e riscoperte.
Il 7 e l’8 dicembre alla Galleria Toledo torna la storica compagnia teatrale Fanny & Alexander con Manson: una riesumazione narrativa e sensoriale degli eventi, una fantasmatica ricostruzione, concreta per suoni e scrittura, della terribile vicenda Manson, vicenda che il pubblico si ritroverà a osservare, e vivere, nello scomodo ruolo di giuria postuma pescando da un elenco di domande da rivolgere volontariamente all’attore.
Dal 4 al 21 dicembre, Segni e Disegni sotto l’Albero, mostra mercato dell’incisione contemporanea, del disegno e del libro d'artista, presso lo Studio Chalcos.
Per gli appassionati di letteratura: giovedì 5 dicembre incontro con i vincitori - Tommaso Ottonieri e Isa Travi - del Premio Napoli sezione Poesia e Testi Musicali presso la Fondazione Premio Napoli, Piazza Plebiscito alle ore 17:30.
Venerdì 6 dicembre due presentazioni in libreria: da Ubik alle 18:30 In Irlanda con Sally Rooney di Fuani Marino e sempre nel centro storico alle 19:00 presentazione di Una notte nella casa delle fiabe di Silvia Ballestra presso il Punk-Tank cafè.
Venerdì 6 dicembre apertura serale prolungata del MANN e visita guidata col direttore alla scoperta dei capolavori.
Giovedì 5 dicembre alle 20:00 al Duel Club, Pozzuoli, ci saranno i Pop X, progetto alquanto indecifrabile del panorama musicale indipendente italiano, che presenteranno il nuovo album Balla coi lupi nella stalla.
Per la musica: venerdì 6 dicembre, il blues/ambient di Hugo Race & Michelangelo Russo alle 22:00 al Mamamu, il post-punk dei KVB al Lizard Club a Caserta, la serata ha inizio alle ore 22:30.
Per gli amanti del design: dal 6 al 24 dicembre vienmnsuonno1926 prenderà vita all’interno dello store di London con un temporary space nel centro storico, da London, Via Nilo, 35 Napoli.
Poster ha appena aperto il suo nuovo canale YOUTUBE, pubblicando il primo video Mai-In-Studio dove Claudio Morelli intervista Tommy Kuti. Iscriviti subito.
Poster è un progetto di Reversocollettivo.
Questa uscita è coordinata dalla direzione editoriale di Claudio Morelli
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