La giostra che ha cresciuto generazioni di veneziani.
Da tre generazioni, la famiglia Sartori anima le giostre della Riva dei Sette Martiri. Fabiano racconta la sua vita, tra fatica, sacrifici e la passione che spinge a mantenere vivo un mestiere unico.
Testo di Caterina Borelli
Foto di Patrick Tombola
Venezia, assieme a Genova, Trieste e forse qualche altra città (curiosamente paiono essere tutte di mare), è una delle poche località in Italia ad avere un luna park invernale. Per un periodo insolitamente lungo, peraltro, da metà dicembre fino a Carnevale, che quest’anno cade molto tardi, concludendosi a inizio marzo. Sono quasi tre mesi in cui la Riva dei Sette Martiri - già Riva dell’Impero durante il Ventennio, poi rinominata a memoria dell’episodio di rappresaglia dell’esercito tedesco contro la resistenza partigiana locale avvenuta il 3 agosto 1944 – ospita le giostre. E lo fa dal 1946, due anni dopo l’eccidio nazista. Un tempo il luna park occupava un’area molto più vasta, che andava dai Giardini della Marinaressa fino a Riva degli Schiavoni: le attrazioni erano moltissime, dalla ruota panoramica al Morgan, il galeone dei pirati, fino alle ben tre sale giochi dove si dava appuntamento nei pomeriggi d’inverno la gioventù locale. Ora il loro numero si è ridotto considerevolmente, e viene istintivo pensare che sia un riflesso della contrazione della popolazione veneziana. In realtà, non è quello il motivo, o per lo meno non è l’unico. Negli anni ’90, il Comune aveva deciso di revocare tutte le licenze ed eliminare il luna park tout court; dopo un lungo negoziato con i giostrai, si è giunti all’accordo di mantenerlo riducendone le dimensioni. Ce lo racconta Fabiano Sartori, terza generazione della famiglia di giostrai che gestisce lo storico Tagadà.
Lo andiamo a trovare in un soleggiato pomeriggio di fine gennaio. Nel suo gabbiotto, sormontato dalla grande scritta luminosa TAGADA’ SARTORI che ben conosciamo, accoglie i clienti, tutti adolescenti o poco meno, che alla chetichella si avvicinano con i buoni scaricati da internet o i 3 euro necessari per un giro. Quando tutte le persone a bordo del disco viola si sono sedute, schiaccia sul quadro comandi il bottone che chiude il cancelletto ed annuncia al microfono “Si parte!”. A quel punto comincia a manovrare, perché il Tagadà non è programmato, va controllato manualmente: «Questa giostra qua non la puoi far andare in automatico perché dipende se c'è poca gente, se c'è un bambino piccolo, se c'è un bambino grande, se c'è quello che sta in piedi, quello che sta seduto, quello che salta, quello che ha bevuto…». Fabiano pilota la sua giostra tenendo d’occhio la clientela dalla plancia di comando rivolta verso il bacino San Marco. Quando si fa più scuro, ogni tanto fa partire uno sbuffo dalla macchina del fumo, che si mescola alle luci colorate ed alla musica che esce dalle grandi casse.




Il Tagadà sembra sempre uguale a sé stesso da decenni, ma Fabiano spiega che non è così: i primi modelli, usciti a metà degli anni ’70, avevano il disco centrale in legno, erano più piccoli e consumavano molto di più. Le versioni attuali sono decisamente più efficienti dal punto di vista energetico e l’avvento della resina le ha rese anche più leggere e facili da montare: in due-tre persone e una giornata di lavoro, la giostra è pronta. Arriva a Venezia all’interno di un camion e un rimorchio, che assieme a quelli delle altre giostre vengono caricati su un ferry boat che eccezionalmente ormeggia in riva. Per distribuire il peso e non rovinare la pavimentazione di sanpietrini, sotto le pesanti ruote vengono piazzate delle tavole di legno, il tutto sotto la supervisione dei tecnici del Comune. Ma oramai i giostrai hanno sotto controllo il procedimento, e danni non ce ne sono. «Noi siamo qua da 40 anni, anche di più. Sappiamo come muoverci e sappiamo che precauzioni usare per non rovinare il pavimento.»
Quando dice 40 anni, non è un’iperbole. Da che è nato, nel 1984, Fabiano viene a Venezia tutti gli anni: prima al seguito dei genitori, ora come titolare, assieme a moglie e figli. Ricorda che quando era bambino le roulotte in cui alloggiano le famiglie stazionavano ancora in riva, poi sono state trasferite fuori dal centro storico. Ora la sua è parcheggiata in zona Tessera, vicino all’aeroporto. Tuttavia, non tutti i giostrai di Riva dei Sette Martiri dormono in roulotte: alcuni mantengono una residenza fissa, spostano le loro attrazioni in un raggio di chilometri più ridotto, e fanno i pendolari. Ma non la famiglia Sartori, che si muove in tutto il Triveneto: «A casa non ci torno mai. Io sono sempre montato dodici mesi all’anno. Avendo la fortuna di essere presente a Venezia, sono uno dei pochi che ha il lavoro invernale.» Perché, spiega, la maggior parte di chi lavora in questo settore d’inverno si ferma: i luna park sono quasi sempre legati a manifestazioni specifiche, come le fiere o le sagre di paese, che nella maggior parte dei casi si tengono tra la primavera e l’autunno, obbligando ad uno stop forzato nei mesi in cui non c’è lavoro, e ad una mobilità più frenetica quando invece ce n’è, “cinque giorni di qua e cinque giorni di là”. In questo senso, la tappa veneziana consente alla famiglia Sartori di lavorare anche nei mesi invernali, oltre che a garantire un po’ di continuità ai figli, che di media cambiano otto scuole all’anno.
Non è una vita per tutti, ci tiene a specificare Fabiano: «Noi ci siamo nati abituati. Abituarcisi, non so, a vent'anni, a venticinque, è dura, molto dura. Non hai una quotidianità fissa. Non hai un orario di lavoro fisso, un orario di riposo, non hai compagnie fisse. Non è un lavoro abitudinario. Perché oggi sei qua, stasera vai da un'altra parte, e la gente che vedi qua non la vedi più per un anno, anche i colleghi. Io ho dei colleghi qua che li vedo solo qua. E non è solo il lavoro, ma è anche la vita privata. Anche nel privato sei sempre in giro, per cui non c'è quella distensione.» Fabiano elenca una serie di controindicazioni intrinseche alla vita del giostraio: le difficoltà nell’inserimento a scuola, specie quando le tappe sono brevi («Gli insegnanti non possono starti dietro, e ti mettono in un angolo. Non riesci ad avere i libri di ogni scuola, e non ti fanno neanche le fotocopie»); la sanità, perché avere il medico di base lontano obbliga a rivolgersi al privato in caso di malattia; i possibili imprevisti («A me è successo, si rompe il camion per strada di notte, sei con le roulotte in parte alla strada e non hai niente per andare a dormire. O spegni il camion e vai all'albergo, pioggia, vento, neve, te devi spostarti»). E poi c’è l’incertezza economica.
Pur lavorando tutto l’anno come i Sartori, ed avendo a disposizione anche un’attrazione più piccola – la pesca a cigni - per adattarsi a contesti diversi, è dura far quadrare i conti: ci sono da pagare i costi di trasporto (altissimi sulla piazza veneziana), le licenze, i plateatici e gli allacciamenti alla corrente elettrica (che raddoppiano quando giostra e roulotte sono in due luoghi separati, per un totale di circa 1.200 euro al mese solo di luce). A queste spese vanno aggiunte anche quelle di manutenzione ed i costanti abbellimenti per rendere la giostra appetibile al pubblico, soprattutto in una fase storica in cui i luna park di questo tipo, che non hanno attrazioni ad alto tasso di adrenalina come invece i grandi parchi a tema, vedono calare la clientela un po’ ovunque. «Non succede solo a Venezia per la perdita di residenti – spiega Fabiano – c’è anche la crisi economica, la gente sta più attenta a come spende. E poi l’interesse per le giostre è andato un po’ perso». Dalla sua postazione, Fabiano ha visto l’età della clientela restringersi sempre di più negli anni, non andando oltre i 15-16 anni, e questo a suo parere avviene soprattutto nel Nord Italia: «Dicono che è roba da bambini. Invece, da Reggio Emilia in giù, il luna park è ancora un punto di ritrovo forte, soprattutto in bassa Italia (sic). Ci vanno anche i grandi di 20-25 anni, si ritrovano in compagnia, e invece noi a 25 anni ci troviamo in bar. È una questione di mentalità. Loro ci tengono alla festa del paese. La festa del paese è una tradizione sacra. Mentre qua da noi, in Veneto, in Friuli, in Trentino le sagre stanno sparendo, non perché non ci sia clientela, ma perché non ci sono più i volontari» (Al che penso che, per fortuna, le sagre in laguna sembrano essere piuttosto in salute: grazie, volontari e volontarie!).
Le peculiarità della vita da giostraio - che Fabiano ci tiene a sottolineare perché «la gente non capisce cosa c’è dietro al nostro lavoro: molte volte tribuli, ma tribuli forte» - fanno sì che questo sia un mestiere che si tramanda principalmente all’interno delle famiglie, con pochi o nulli inserimenti di persone estranee a questo contesto. Non perché non ne esista la possibilità, anzi: sempre più spesso, quando una generazione si ritira, lo scettro non viene poi raccolto da quella successiva, che preferisce dedicarsi ad occupazioni più stanziali. Le giostre in quel caso vengono vendute, e potrebbero venire rilevate da chiunque. Questo però nella pratica non succede quasi mai: «chi subentra, viene sempre dal mondo del giostraio». Anche la moglie di Fabiano appartiene ad una famiglia di giostrai e quindi, spiega, sapeva già a cos’andava incontro quando si sono sposati. Sua madre invece no, proveniva da tutt’altro mondo quando si innamorò del signor Sartori padre e decise di seguirlo nella sua vita non nomade – perché il raggio d’azione è tutto sommato circoscritto ed un baricentro c’è – ma sicuramente ambulante. Non fu facile per lei all’inizio, ammette: «Un bello sconvolgimento per qualcuno che viene da fuori».
Chiedo a Fabiano se questo stile di vita gli sia mai pesato, magari quando era più piccolo. A volte sì, ammette, mentre punteggia le nostre conversazioni di esclamazioni rivolte con il microfono al pubblico sul Tagadà: Ok, attenzione ragazzi, ci siamo! Ma così come non è facile passare dalla stanzialità alla giostra, continua, non è semplice nemmeno il passaggio inverso, «dalla nostra vita a quella di stare sempre fermo». Gli domando se ci abbia mai seriamente pensato, a questo possibile cambiamento. «Sì, ogni tanto ci ho pensato. Soprattutto nei periodi di crisi economica… Monta e smonta, corri, fai, briga…e dopo non arriva niente in cambio». Un lavoro in fabbrica sarebbe sicuramente pesante, ma offrirebbe maggiore stabilità, un salario, orari fissi. Anche meno pregiudizi, con cui quasi sempre chi lavora in questo mondo si scontra. Ma alla fine, ammette Fabiano, questa è una passione, ed è il motivo per cui siede ancora dietro il quadro di comando del Tagadà.
Vedere con il passare delle ore la luce che muta, il cielo sopra San Marco che si tinge prima di viola poi di nero, gli adolescenti che si avvicendano sulla pedana dopo aver lasciato i borsoni del basket o del calcio pochi scalini sotto la biglietteria e aver ritirato i loro biglietti, che chiamano per nome gli amici che passano, mentre le casse sparano Barrio di Mahmood e Fabiano fa partire un altro giro con uno sbuffo di pistoni… ha un che di stranamente rilassante. La giostra è quasi ipnotica.



Improvvisamente, mi viene in mente un’ultima domanda da porre al mio interlocutore. Se volessi comprare una giostra, dove dovrei andare? Chi produce queste attrazioni? Ed è così che scopro che in Italia esiste una fiorente industria legata a questo mercato, che non solo copre il fabbisogno interno, ma esporta anche nel mondo. Le giostre di Coney Island, ad esempio, sono made in Italy, prodotte dalla ditta Zamperla di Vicenza (poi ricordo perché il nome non mi era del tutto nuovo: si tratta della stessa azienda che si era proposta di costruire un parco divertimenti fisso qui a Venezia, sull’isola di San Biagio, una decina di anni fa). Un altro punto di produzione importante è Moriaco della Battaglia, vicino a Valdobbiadene, in provincia di Treviso. Nell’Alto Polesine rodigino, invece, si trova un vero e proprio Distretto della Giostra, sviluppatosi tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento tra i comuni di Bergantino, Melara, Castelnovo Bariano, Calto, Ceneselli e Castelmassa. Qui, un centinaio di piccole aziende si coordinano per produrre tutto ciò che ruota attorno allo “spettacolo viaggiante”, esportando il 98% del prodotto e dando lavoro a più di 1.500 persone. Bergantino, soprannominato “il paese dei balocchi”, vanta pure il Museo Storico della Giostra e dello Spettacolo Popolare. Le “fabbriche dei sogni” hanno risollevato quest’area del Polesine, svincolandola dall’immagine di fame e miseria dominante tra Ottocento e Novecento, con le continue alluvioni del Po e l’emigrazione come unica via d’uscita. A leggere le storie dei primi pionieri dell’industria del luna park, che riciclando residuati bellici si inventavano l’ottovolante, viene subito in mente il signor Bruno Ferrin che da quarant’anni arricchisce il suo luna park fatto a mano tra i boschi del Montello. Questi ed altri pensieri di collodiana memoria affollano la mente cullata dal sospiro degli stantuffi del Tagadà. Si parte!
Segui Poster anche su Instagram
Caterina Borelli è anche lei su Instagram, così come Patrick Tombola
Caterina Borelli (Venezia 1980) è antropologa ed operatrice del terzo settore. Dopo la laurea in Scienze e Tecniche dell’Interculturalità a Trieste, ha ottenuto nel 2012 il dottorato di ricerca presso l’Università di Barcellona con la tesi La città post-traumatica: Marijin Dvor e il Monte Trebević, due spazi urbani in transizione a Sarajevo. Attualmente è Marie Curie Global Fellow presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia con il progetto BeCAMP – Beyond the camp: border regimes, enduring liminality and everyday geopolitics in Italy and Spain. Parallelamente, da anni collabora a progetti collettivi che ibridano le teorie e i metodi della ricerca etnografica con la pratica fotografica.
La lista di Poster
In breve. Cosa è successo, sta succedendo o succederà in città. Se hai delle segnalazioni, sei un ufficio stampa o un nostro lettore scrivi a info@reversocollettivo.com
Mercoledì 5 e giovedì 6 febbraio, rispettivamente al cinema Dante (Mestre) e al cinema Giorgione (Venezia), proiezione del documentario No Other Land dei registi Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor. Saranno presenti in sala: al Dante il 5 febbraio: Patrizia Zanelli e Antonella Ghersetti; al Giorgione il 6 febbraio: Valentina Bonifacio e Chiara Bonfiglioli. Tutt* docenti dell’Università Ca' Foscari di Venezia.
Alla Libreria Marco Polo (Venezia, Campo Santa Margherita) giovedì 6 febbraio alle 20.00: Bella Ciao. Una canzone, uno spettacolo, un disco (ed. Il Saggiatore) di e con Jacopo Tomatis: speech, firmacopie e vinello!
Dal 7 febbraio al 9 marzo torna la Festa del Pesce a Forte Marghera, organizzata dalla Cooperativa sociale Controvento. Il menù e il programma artistico e sportivo in aggiornamento qui.
Per la rassegna Candiani Groove (Mestre, Centro Culturale Candiani) venerdì 7 febbraio, sul palco, il trio Insingizi con: Vusa Mkhaya Ndlovu, tenore, Dumisani Ramadu Moyo: voce solista e Blessing Nqo Nkomo, basso e percussioni. Per maggiori informazioni.
100__ve expanded festival Back at the infamous Nite Park del Centro Sociale Rivolta: una serata dedicata al B2B con Club Recordo. Sabato 8 febbraio a Marghera, in Via Fratelli Bandiera 45 dalle 22.00. Per i dettagli, qui.
Domenica 9 febbraio, al Caffè Rosso (Venezia, Campo Santa Margherita): Personal Jesus, dj set dalle 16.00 alle 19.00.
Fino al 9 febbraio alla Galleria 193 (Venezia, Dorsoduro 993-994) è possibile visitare l’esposizione dell’artista Jade Fenu: Interferences/Interferenze, un invito a esplorare temi universali come il conflitto tra natura e costruzione umana e i cicli di crescita e trasformazione.
È “sete” la parola che unisce i brani selezionati da testi provenienti da tutto il mondo per l’appuntamento mensile del Teatrino di Palazzo Grassi La casa delle parole, dedicato agli amanti della letteratura. Martedì 11 febbraio alle ore 18.30. Come sempre i testi vengono letti prima in lingua originale e poi nella loro traduzione in italiano.
Mercoledì 12 febbraio all’Irish Pub (Venezia, Cannaregio 3847) torna: Jim the Quiz Master e Doctor Will. Alle 20.30.
Carnival of Love: St.Valentine’s Trash Party. Per la prima volta a Venezia la carnevalata di San Valentino. Live: Padre Ornello e i chirichetti di Poveglia. Music: DJ Cupido. Nella sede di Spiazzi (Venezia, Castello 3865), entrata 5 euro. Qualche informazione in più sulla pagina FB.
Visitabile fino al 14 febbraio la mostra fotografica dedicata a Franco Basaglia presso la sede di Emergency Venezia (Giudecca 212). Omaggio a Basaglia: dal manicomio alla cura, cento foto di Gian Butturini. Qui i dettagli.
On and Beyond dà spazio a pluralità di tecniche, approcci e materiali con gli artisti Christian Fogarolli, Luciana Lamothe, Marie Lelouche, Fritz Panzer, Michelangelo Penso, Esther Stocker. Alla Galleria Alberta Pane (Venezia, Calle dei Guardiani, Dorsoduro 2403/h) fino al 1 marzo.
Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna ospita l’esposizione Scultura lingua morta di Giorgio Andreotta Calò, fino al 4 marzo 2025 nelle Sale Dom Pérignon. Qui tutte le informazioni.
Sabato 15 febbraio, allo Studio Inchiostro 6300, alle 19.00 inaugura la mostra The mask is the face con opere di Lavinia Fagiuoli e testi di Andrea Cristallini. In Fondamenta dei Felzi (Castello 6300).
Poster è un progetto di Reversocollettivo.
Questa uscita è coordinata dalla direzione editoriale di Claudio Morelli
Vuoi farci delle proposte di storie, servizi, reportage?
Scrivi a claudio@reversocollettivo.com con un pitch di 4/5 righe.